Google+ Il Giullare Cantastorie - Scrittori, artisti e band emergenti: Una di quelle storie che non vorreste sentire - Ida D'Antò

venerdì 18 luglio 2014

Una di quelle storie che non vorreste sentire - Ida D'Antò

Unghie rosse arrotolano una banconota da cento. Il vetro del tavolino riflette i suoi seni rotondi. Avvicina il nasino al centone per ficcarsi nel cervello una striscia bianca a zig-zag. Ricade all'indietro come se un'esplosione l'avesse fatta rotolare via per il rinculo. I capelli, biondi e arruffati le si appiccicano sul viso. Si avvicina al bancone sorridendo, il vento le apre la vestaglia di seta, indossa solo delle mutandine di pizzo bianche con degli autoreggenti. Pare vedermi per un attimo, non ha più paura.
Sale sul cornicione allargando le braccia e vola giù verso l'auto sotto di lei.
Psst, lo fa sembrare così semplice.
Oh, splendido! Anche stasera mi tocca posare la pistola nel cassetto del comodino senza nulla di fatto. Con questa sono duemilacentonovanta notti di fallimenti. 
Duemilacentonovanta città. Duemilacentonovanta alberghi. Duemilacentonovanta comodini.
Inutile dirvi che ormai sto cominciando a fare sogni strani in cui io e la mia pistola limoniamo duro e io non faccio che palparle le sue bocce. Dovreste vederle, sono sode che sembrano d'acciaio con due proiettili per capezzoli che puntano sempre in direzione del mio cuore. Ma in ogni stramaledetto sogno non riesco mai ad arrivare al dunque, così la riaccompagno a casa pieno di angoscia. Abita in un grosso comodino di legno scadente ed il suo letto è una riproduzione gigante di una bibbia.
Si, lo so non c'è che dire, un sogno di facile interpretazione. Il mio analista non ha mai fatto fatica a decifrarmi, diceva che se tutti i pazienti fossero stati come me il suo lavoro non sarebbe stato necessario. Oh, era una cosa che mi mandava in bestia, così una volta gli ho detto :"Beh, indovina coglione il tuo lavoro non è necessario" e ho pisciato nella sua pianta di fico, poi ho sbattuto la porta.
No, non ho sbattuto la porta. 
A dire il vero non gli ho neanche detto quelle cose ma gli ho pisciato nella pianta di fico approfittando di quando era uscito per parlare con un paziente insistente "molto più pazzo di me". Dopo aver innaffiato il suo amatissimo "bodhi" ( lo chiamava così in onore dell'albero di fico sotto cui il Buddha ebbe la sua illuminazione, immaginate che trombone montato fosse?! ) non sono più tornato alle sue noiosissime sedute. Che vada a farsi fottere, lui e tutti gli individui che ho incontrato nella mia vita. 
Non hanno mai capito che non volevo la loro opinione o i loro sguardi saccenti, come se non fossero anche loro un ammasso di carne e budella, come se non facessero parte del mondo animale anche loro come me. Volevo solo che mi guardassero e non capissero, non c'è mai stato niente da dire o da capire, o da analizzare o aggiustare, c'ero solo io. 
I miei alluci strisciano sulle lenzuola fredde in cerca di qualche piega. Sento un chiodo nel cuore. Non sono felice perché non sono libero e non ho il coraggio di liberarmi. 
Non l'avrò mai.
Anche se stasera avrei potuto avercelo. 
Se non fosse stato per quella. 
Adesso non posso spararmi una pallottola su per la gola, lei mi ha già rubato tutta la scena. Ricorderanno l'accaduto come quella sera in cui una figona bionda in lingerie si è sfracellata su una Mustang e il cazzone della camera difronte alla sua finestra si è sparato testa. Naaah non mi piace. 
Quante probabilità c'erano che due persone avessero voluto suicidarsi nello stesso albergo, alla stessa ora e con le finestre una di fronte all'altra? E che cazzo. Beh, forse una su duemilacentonovanta.
A dire la verità tutto quel sangue e quella merda sparsa sul parabrezza mi ha parecchio disgustato per non parlare del rumore spacca-timpani di ossa rotte e budella spiaccicate.
Che gran schifo. 
Peccato peró aveva un gran bel pezzo di carrozzeria.
Dico la Mustang.
E se invece oggi fosse l'ultima sera? è da un po' che ci sto pensando. Ormai sono scappato da duemilacentonovanta giorni e non ho fatto altro che continuare ostinatamente a soffrire per quel senso di oppressione che avevo superato di miglia e miglia.
Non voglio più scappare.
Il primo pensiero, quello che affiora subito alla mente, è che sono diventato un'imbecille. Sono sempre stato uno che fa quello che non vuole fare, andare in chiesa, al lavoro o restare a casa con la mia terrificante famiglia. Intorno a me vedevo solo gente coatta, che quando andava in vacanza e s'indebitava con le banche, tornava a casa ancora più arrabbiata e depressa. In una parola: cretini ed io non volevo più farne parte. Il problema del cretino devo ripropormelo di tanto in tanto, perché non appena abbasso la guardia lui (il cretino) guadagna terreno. 
Insomma, a furia di odiare la vita che ci tocca siamo rincretiniti: questo mi sembra il vero senso, la vera morale del mio viaggio. Ammesso che questo viaggio abbia un senso. Del resto, senso o no, l'occasione è buona per metterci in guardia dall'idiozia che ci assedia.
Non è mai troppo tardi.

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