Google+ Il Giullare Cantastorie - Scrittori, artisti e band emergenti: Possessioni (non solo carnali). Dominazione e riti di sangue. - Luca Della Casa

martedì 24 giugno 2014

Possessioni (non solo carnali). Dominazione e riti di sangue. - Luca Della Casa

L’altare, con statuette di santi cristiani e idoli africani, emergeva da una bassa e folta siepe di rovi. Tra le spine si trovava un po’ di tutto: ossa, monili, brandelli di vestiti, petali, avanzi di cibo… C’era pure una mia foto, già era proprio il mio viso quello, o ciò che ne restava nell’immagine sbiadita dalle intemperie. “Prego spesso per te.” Affermò la signora, rispondendo al mio sguardo interrogativo.


Da “Il piacere di morire”. Primissima stesura.



Scossi la testa senza sapere che dire. Anche i brandelli di tessuto mi appartenevano: facevano parte dei vestiti che avevo indossato nel nostro primo incontro. Provai una sgradevole sensazione inspiegabile, che l’ebbrezza riuscì ad attenuare solo in parte.


Davanti all’altare era stato disposto un piccolo camposanto con una decina di croci bianche. Sui piccoli sepolcri avevano sistemato una moltitudine d’offerte floreali, candele, ciotole con cibo e bottiglie di liquore. Delle galline nere beccavano tra le tombe, dando alla scena un assurdo aspetto agreste.
“Chi sono i defunti?”
“Confratelli. Cloe ha portato le loro ossa da Haiti.”
“Mi sembra tutto molto lugubre. Voglio andarmene.” Mugugnai.
“Non dire stupidaggini. È già tutto pronto.” La signora mi prese per mano e mi condusse a un tavolo apparecchiato.

“Ecco il mio amico Manuel.” Disse ai presenti; i quali, visibilmente infastiditi, salutarono a malapena.

Anche gli ospiti erano vestiti di nero: con giacca e cravatta gli uomini, ed eleganti completini le donne; sia gli uni che le altre erano tatuati, s’intravedevano intricati disegni su mani e collo. I maschi erano rapati corti e le femmine, invece, avevano i lunghi capelli neri raccolti sulla nuca.
Ci fecero sedere a capotavola; io da una parte, Rita dall’altra. Rivolsi un sorriso nervoso agli invitati; fui ricambiato con occhiate diffidenti. “Puto gringo!” mi parve di sentire bisbigliare; feci finta che si trattasse della mia fervida immaginazione. I piatti erano serviti dallo stalliere che fin dalla prima volta che l’avevo visto, mi aveva dato l’impressione di essere un disgraziato. Il poveruomo si affannava avanti e indietro dalla parrilla, e nessuno lo aiutava. Era magro e alto, con il colore della pelle caffé latte come quello di Cloe; anche lui sembrava vestito a festa ma con un abito un paio di taglie più piccole della sua. C’era qualcosa in lui che ricordava un morto ambulante. Non cucinava male però; pietanze composite allo stile creolo: banana fritta con formaggio fuso, yuacca, riso, fagioli, verdura, carne di pollo e maiale.
Circolarono un numero imprecisato di birre che contribuirono ad accrescere la mia ubriachezza ed alleggerire un poco la tensione di pranzare con simili commensali. Poi fu la volta del Ron e della Tequila; la mia sbronza assunse dimensioni colossali.
Un paio di donne aiutarono il morto vivente a sparecchiare mentre le altre si dedicarono a tracciare dei disegni con farina sulla terra scura, seguendo le indicazioni di Cloe. Erano dei bei fregi stilizzati: navi, cuori, tombe, croci, fiori; proprio come le decorazioni in seta del vestito di Rita.
“Che cosa fanno? Domandai ai tipi rimasti a tavola?”


<strong>“I veve dei Loa: Legba, Gede, Brigitte, Le Barón Samedí…” Disse uno, con ridicoli baffoni da duro, indicandomi i ghirigori.
Scossi il capo corrucciando la bocca: non sapevo di che accidenti stesse parlando.
“Ah, lascia perdere.” Mi rispose con derisione.
“È così difficile da spiegare?” Continuai.
“Difficile da capire se sei gringo, impossibile se sei tonto.” Asserì un balordo col pizzetto, tra le risate generali. “Fai conto che è per una festa.”
“Che festa?”
“La tua, gringo tonto, la tua… E vedrai che festa.”





Erano quattro cialtroni odiosi e sicuri di sé, conoscevo il genere; si sarebbero dedicati al loro divertimento preferito: la derisione. Gli ignoranti, orgogliosi della propria ignoranza, trovano inconcepibile che non si capisca il loro mondo gretto e spregevole, sicché credono doveroso offendere e umiliare gli altri. Si sforzarono, dunque, nel dimostrare quanto fossero furbi, con battute idiote a proposito della gran disdetta d’essere gringo. Sopportai i loro stupidi scherzi per un po’, mentre sorseggiavo la Tequila, sorridendo, annuendo, senza farci troppo caso.


Rita restò impassibile, col consueto sorrisetto da Mona Lisa: sembrava che non le importasse troppo che i suoi gentili ospiti mi trattassero di merda; aspettava la mia reazione, con una certa curiosità. Potevo sentirlo chiaramente; sicuramente le sarebbe andato a genio un bel pestaggio: la violenza e il sangue la eccitavano, questo lo sapevo bene. C’è qualcosa di più odioso dei maschi che si battono per le femmine della specie? Decisi, nonostante, di dire la mia, animato dall’alcool e dall’insensato desiderio di compiacere la femmina di turno.



“Come si chiama la vostra Mara merdosa?” Domandai, senza preamboli giacché non ero troppo esperto nella sottile arte della beffa.
I quattro tacquero improvvisamente; i loro sorrisetti detestabili erano scomparsi.

“Scommetto che è la ‘Ocho’! Me muero por mi clica.” Scimmiottai. “Siete disposti a morire per la banda; non è così? Conosco un mucchio di gente che vi accontenterebbe volentieri.”
“Bada a come parli pince gringo de mierda.”
“Altrimenti che cosa; metterete mano ai ferri del mestiere?”
“Chinga a tu madre!” Si alzarono in piedi tutti e quattro aprendo le braccia; a quanto pareva non avevano portato i cannoni.
“Sul serio, niente armi?” Constatai, fingendo incredulità.
La mia mano partì da sola; spaccai una bottiglia di Ron in faccia al tipo del pizzetto che si era dimostrato così spiritoso.
“Ops, Magari avresti preferito la Tequila.”
Lo finii con una bella pedata nei gioielli di famiglia. Poi passai a riempire di pugni l’altro amichetto; lo presi di sorpresa propinandogli una lunga serie di diretti con tutte le forze, in piena faccia, fino a farlo crollare. Gli altri due mi saltarono addosso. Erano mosci: i pistoleros non valgono un gran che a menar le mani.
Mi dedicai a demolire anche un terzo pagliaccio: diretto al plesso, gancio alla mandibola, presa a due mani dietro la nuca e ginocchiata con salto, in piena faccia.




Il quarto ospite; pensò bene di rompermi, a sua volta, la bottiglia sulla testa. Il laudano e l’alcol attenuarono il dolore ma non la rabbia che crebbe, invece, esponenzialmente. Per la prima volta nella vita provai il desiderio di ammazzare qualcuno.

Alla fine sembrava che Rita fosse riuscita dove aveva fallito Leanne. Afferrai il malcapitato per il bavero e mi lanciai insieme a lui sul tavolo, facendolo crollare sotto di me, con gran trambusto di assi rotte, piatti e bicchieri che andavano in frantumi. Tempestai la vittima di gomitate; avevo deciso che non mi sarei fermato fino a che non gli avessi ridotto la faccia a spezzatino. Non me lo permisero; spose e fidanzate presero parte alla festa. Le donne delle Maras picchiano anche loro: pugni, calci, morsi e graffi. Intravidi Rita e Cloe assistere, affascinate e divertite, a quello spettacolo vergognoso. La cameriera disse qualcosa allo stalliere e fu proprio lui, il morto ambulante che mi aveva fatto così pena, a terminare la rissa; a suon di bastonate sul mio cranio.


L’acuto dolore mi aveva fatto risvegliare. Mi trovavo nudo, legato, e disteso nella polvere. Rita era appollaiata in ginocchio sul mio stomaco; stava intagliandomi il petto con la lama di un coltello.

“Non mi aspettavo che fossi così brutale.” Sussurrò affettuosamente. ”Mi piace quando ti comporti come un selvaggio.” 
Gli invitati erano disposti in semicircolo; cantavano una nenia incomprensibile e monotona, tenevano il ritmo battendo le mani, mentre lo stalliere e il baffo suonavano congas e tamburi. La loro attenzione era tutta per me: occhi neri, denti rotti, labbra spaccate; dalle occhiatacce dei presenti, si capiva che avrebbero preferito ammazzarmi invece che far musica.

Rita proseguì la sua opera d’arte, tracciando accuratamente il disegno di un cuore trafitto da una spada. Ripassava con calma le incisioni facendole larghe e profonde; aveva le dita imbrattate di plasma. Quando il sangue era troppo abbondante e non le permetteva di vedere i propri ghirigori, versava del liquore sulle ferite e poi le ripuliva con gesti rapidi della mano. Rita, mi rivolgeva sguardi e sorrisi, al tempo stesso folli e amorevoli.


“Cristo Dio, cosa mi stai facendo?” Mi lamentai.

La signora non rispose, leccò le ferite e poi mi baciò sulla bocca. La sua lingua cercò morbosamente la mia per condividere il sapore di sangue e di Ron.

Le endorfine, l’alcol, il laudano, e va a sapere che cos’altro mi avevano fatto mangiare, mi trascinarono nella semincoscienza; in un turbine vertiginoso di dolore, ebbrezza e paura. Di nuovo mi passò davanti agli occhi lo scempio dei corpi delle vittime di Cutting Edge; l’idea di finire a quel modo mi terrorizzava.

“Non ti preoccupare!” Assicurò una voce. “Ti vuole vivo, per il momento.”
Misi a fuoco il mio interlocutore: un negro alto, dall’aspetto atletico e l’età indefinita; era vestito a lutto pure lui, tanto per cambiare, con piccoli occhiali da sole rotondi. Indossava livrea e mezza tuba; ricordava un addetto alle pompe funebri dell’Ottocento. Fece qualche agile passetto di danza a ritmo, mentre piluccava del cibo con le dita, dalla ciotola che teneva in mano.
“Ha l’aria di fare male.” Segnalò, riferendosi alle mie ferite sul petto. Rita stava aggiungendo vari fregi e decorazioni attorno al cuore.
“Le sarebbe bastato disegnare il simbolo di Maman Brigitte con la farina ma ha preferito farlo nella ciccia. Brutto affare: ti vuole far diventare come tete de mort.” Indicò col bastone da passeggio verso il vecchio stalliere.



“Cloe, aveva cinquan’anni quando gli ha fatto la fattura e lui solo venti. Per lei il tempo ha smesso di trascorrere: tete de mort sta invecchiando per entrambi. Un po’ se lo merita; fa proprio schifo a suonare quel tamburo, comunque, fra tutti, non se ne salva uno. È una delle orchestre peggiori che abbia mai sentito: sono stonati, non hanno ritmo! Ma che vuoi pretendere, da gente a cui piacciono las Rancheras dei Mariachi.”



La signora aveva tracciato per bene il suo nome nel cuore e ora riempiva l’interno del disegno con una texture di fitti tagli diagonali.
“Sa il fatto suo; non c’è che dire.” Ammise lo sconosciuto. “Traccia il nome e poi lo nasconde: a prova di maleficio.”


“Ma tu chi sei?” Domandai tra un lamento e l’altro.

“Come chi sono? Le Baron! Però tu puoi chiamarmi papà Guede!”



Cloe afferrò un pollo che stava beccando inconsapevole ai suoi piedi; si avvicinò all’altare, sgozzò l’animale e ne disperse il sangue tra le croci bianche.
“Ah, finalmente; adesso sì che ragioniamo.” Disse papà Guede.
Un suono sincopato di percussioni e maracas, prese lentamente corpo diventando poco a poco quasi assordante; l’aria si riempì d’elettricità statica e il beccamorto prese a ballare con maggior foga.
“Li senti, di’, li senti? Cloe si è portata da Haiti i resti dei migliori percussionisti Vudù di tutti i tempi.” Assicurò, esibendosi in paio di perfette giravolte.
“Così, sto passando questo calvario perchè lei non vuole invecchiare?” Chiesi incredulo.



“Intendiamoci bene, questa è una possessione, ovvero, sarai assoggettato al volere della tua signora; cosa ne farà di te dipende da lei: è una psicopatica sicché vai a sapere. Tete de mort è completamente succube di Cloe e, oltre a darle la vita, l’accontenta in ogni suo desiderio. È il suo servo insomma; si sta facendo vecchio, però, e la baldracca presto si cercherà un’altra vittima. Povero Tete de mort.”


Rita aveva finalmente finito d’intagliarmi. “Con chi stai parlando, amore?” S’informò.

“Papà Guede.”
Cloe e la signora si guardarono soddisfatte e un po’ stupite. “È dotato, molto dotato.” Ammise la cameriera.
Baffo e pizzetto mi aiutarono a rialzare per poi sbattermi a sedere, in malo modo, su una sedia. Continuavo ad essere legato, mi passarono le braccia dietro lo schienale e mi assicurarono stretto alla sedia con un’altra corda.
Cloe versò del liquore a terra, su di un disegno a croce.
“Ron nero cubano.” Disse papà deliziato. “Dio quanto mi piace ‘sta broda.”
Cloe cominciò a recitare delle preghiere nel suo gergo strano. Capii solamente che chiamava “Le Baron Samedí.”
“Le Baron c’est moi!” Esclamò Papà Guede. “È ora di fare un po’ di teatro. Tu non ti preoccupare; ci penso io a ‘sti zotici.”
Sentii il beccamorto scivolarmi dentro; era una gelida sensazione strana: papà aveva preso il controllo ed io ero seduto in panchina ad assistere la partita.


“C’è qualche figlio di un azteca disposto a darmi da fumare?” Domandò allegramente attraverso la mia bocca. Gli accoliti della Mara si affrettarono a porgermi i pacchetti delle sigarette. Il barone valutò l’offerta. “Nessuno di voi straccioni fuma marlboro? Non ci posso credere.” Mi fece dire disgustato. “Stalliere del malanno! tu fumi Winston, guarda che lo so: forza tirane fuori una.” Poi si rivolse al baffo: “E tu, testa di cazzo, dammi i tuoi occhiali da sole, che la luce mi da fastidio.”



Gli appartenenti alla gang si misero in fila e uno dopo l’altro mi rivolsero delle domande.
“Baron, dimmi ti prego, qualcosa sul mio futuro?” Domandò il primo.

“Quale futuro? Hai già un piede nella fossa. Ti consiglio di cambiare mestiere e sopratutto le amicizie. Sparisci!”
Poi fu la volta di una donna che domandò un buon numero della lotteria. Il Barone le diede un numero vincente. “Della lotteria di Haiti, però.” Mi fece sapere strizzandomi l’occhio.
Un altro le domandò a proposito della salute della mamma. “Tua madre è morta ieri di crepacuore. Tutto merito tuo, ovviamente. Levati di torno adesso, prima che mi venga voglia di farti venire la dissenteria per sempre.”
Il baffo domandò quando avrebbe rivisto la sua terra. “Presto, molto presto, rivedrai la terra.” Assicurò il Barone. “Dalla parte delle radici, beninteso.” M’informò.


Vi furono diverse domande. “Una più stupida dell’altra.” Fece notare papà. “Possibile che non abbiate alcuna inquietudine sulla vostre esistenze inutili?” I chicanos si guardarono senza capire.


“Lo supponevo. Va bene, levatevi di torno ora, che c’è un unione da celebrare.”
Cloe versò del Ron sul mio petto. Il barone uscì dal mio corpo e si sedette alla mia sinistra. Nel frattempo, venuto chissà da dove, comparve un ghepardo sulla scena. Fece un paio di giri rapidi tra i presenti, poi venne da me; mi poggiò le zampe anteriori sulle ginocchia, annusò un poco, passò la grossa lingua rugosa sulle mie ferite, e infine andò ad accucciarsi ai piedi del Barone.


“Ecco la mia Brigitte!” Annunciò lui, carezzando l’animale.
La signora venne oltre, si tolse il camicione e rimase completamente nuda, guardandomi seria. I tamburi tenevano ora un magico ritmo lento e ipnotico.
“È una bella donna, di quelle per cui si può perder la testa.” Ammise il Barone. Certo che morire pur di compiacerla…
Il ghepardo scomparve di un balzo nel corpo della signora. La posseduta vacillò e si lasciò andare rigida tra le braccia di Cloe che la sostenne, impedendole di cadere all’indietro. Le pupille scomparvero quasi completamente sotto le palpebre; scoprendo il bianco degli occhi.
“Questa è un’enorme cattedrale, gelida, oscura e disabitata.” Proclamò una calda voce creola attraverso le labbra della Signora. “Detriti, putrefazione, sregolatezza: le tracce dei demoni; ovunque. Non ho mai visto niente di simile.” Assicurò infastidita.

Cloe aprì una valigetta, di quelle che mantengono al fresco gli organi per il trapianto, e ne estrasse una orrenda collana con cinque dita, intercalate da due bulbi oculari. La cameriera la mise al collo della signora.
“Papà, questi sono riti esecrabili!” Esclamò Brigitte.
Il Barone annuì convinto, senza dire nulla.
Cloe fece sedere la posseduta a cavalcioni sulle mie gambe, prese una borsa di sangue dalla valigetta, l’aprì e ne versò il gelido contenuto su di noi.
“Me ne vado! Non voglio assistere a quest’abominio.” Annunciò la voce proveniente dalla bocca di Rita.
La signora ritornò in se; Brigitte l’aveva lasciata ed era scomparsa.
“Ti ha rifiutata ma non importa, non abbiamo bisogno della sua benedizione. Continua da sola: le cheval il te pertienent dejiá.”


Rita mi guardava, ora, con occhi risoluti e pieni di desiderio; avvicinò il suo volto coperto di sangue al mio, cercò la mia bocca e io ebbi l’impulso di evitare i sui baci.
“Ti capisco, vorresti sfuggirle, ora, ma non puoi; ti tiene in suo potere ormai.” Assicurò il Barone.
La signora mi afferrò per i capelli, obbligandomi a girare la testa e accettare i suoi baci; si strinse contro di me sfregandosi in modo irresistibile. La sua pelle impiastricciata di sangue scivolò lentamente sulla mia.
“Ti ha soggiogato, fin dalla prima volta che l’hai vista, e tu non hai fatto nulla per sfuggirle; sei pazzo di lei.”


Rita mi carezzò il collo, mordicchiò l’orecchio, le labbra, e ben presto non potei fare altro che rispondere ai suoi baci incendiari; le succhiai i capezzoli, lei s’infilò la mia erezione e prese a cavalcarmi a fondo, con forza. “Mon cheval, pour toujoure. Il mio cavallo, per sempre.” Mormorò. Era bagnata fradicia e rovente come un forno.

“Tu l’adori, perchè t’illudi che sia la Dea che ti libererà dal dolore dell’esistenza, e lei non aspetta altro che accontentarti, ma ricorda: non è una Dea, è solo umana; proprio come te. E nessun umano è meritevole di togliere la vita ad un proprio simile.”
Rita mi mise una cintura attorno al collo e prese a stringere, lenta e inesorabile. “Hai paura?” Mi sussurrò all’orecchio.
Annuii. Sentivo mancare il respiro e il cuore battere impazzito.
“Però mi ami, non è così?”
Baron Samedí era scomparso ma io continuavo sentire la sua voce risuonare nella mente.
“Non confondere il desiderio di pace, con la morte. La morte, conduce alla pace ma non si devono precorrere i tempi, bisogna essere pronti per riceverla.
“Dimmi che sei disposto a tutto pur di compiacermi.” Sussurrò la signora ansimando e cavalcando sempre più rapidamente. Non avrei potuto certo risponderle. Stringeva con forza, tirando dalla cintura. Lo faceva poco a poco, lentamente; avrebbe atteso il momento dell’orgasmo per darmi la stretta finale.
“Bisogna vivere, sforzandosi di migliorare e comprendere le ragioni dell’esistenza; solo questo può aiutare a trovare un po’ di serenità.” Continuò il Barone. Sentivo la sua voce e il frastuono dei tamburi, sempre più lontano.
Avevo la vista e i sensi annebbiati; ormai passava sempre meno ossigeno e sangue nella morsa.
“Non puoi liberarti dalla mia stretta, stavolta.” Disse Rita con la voce rotta dal piacere. “Non puoi muoverti, non puoi difenderti; sei inerme tra le mie mani.”
Stava raggiungendo l’orgasmo e ora mi strizzava con tutte le energie.


“Ah se solo avessi la forza da stringere il collo così forte, da mandartelo in poltiglia.” Sibilò.
Non vedevo più, la pressione era tanta da darmi l’impressione che mi stesse scoppiando il cervello.
“Vengo Manuel, brutto figlio di puttana!” Urlò la signora in preda a un piacere prossimo alla follia. “VMe ne vengo! Sognando di separarti la testa dal corpo.”



L’oscurità sopravvenne e cancellò ogni tormento. Se questa è la morte non è poi così male. Considerai. Finalmente mi lasceranno in pace, adesso.
“Niente da fare; non ti ha ucciso… Te lo avevo detto. Per un po’ si divertirà col suo nuovo giocattolo. È così fin da che era bambina: non ha mai lasciato una bambola con la testa.” Assicurò Papà Guede. “Dovrai lottare, dunque, con tutte le forze se vorrai sfuggirle; non ti resta molto tempo: si annoia presto, la signora e quando sarà stufa…”

Frammento da Non Serviam di Luca Della Casa. (prima stesura)

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