Google+ Il Giullare Cantastorie - Scrittori, artisti e band emergenti: febbraio 2014

venerdì 28 febbraio 2014

Astinenza da vivere - Davide Sasso

Che noia di vivere.

Tutto ciò che mi circonda
sembra non esistere.

Io mi sento nulla
come se la notte fosse,
dei miei mali, la culla.

Che noia di vivere.

Ogni respiro è come
se non soffiasse,
ogni parola è come
se non parlasse..
La mia anima non esiste.

In questo giorno,
per davvero,

mi sento triste...

Sant'Anastasia, 21/22 settembre 2013


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Poesia di Amato Maria Bernabei (estratto dall' opera "Dove declina il sole")

Regalami una notte,
un segno vero 
di oscurità.
La morte è nulla
e queste ombre fiacche
le penetra una stella
o le dirada il lume
delle città.
Regalami una notte,
perché senta,
ma fugga dalle forme
e spenga il tempo
che brucia nelle cose
e nel fermento.
Dammi una notte vera
che confonda
anime di memorie
e voli accesi
dentro il vento che scorre.

Peraga, 3 aprile 1991, ore 23,30

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Amori impraticabili, e quindi eterni - Il Mondo Perfetto

Un film che ha come leit motiv un microchip con viso di bambola capace, sotto stimolazione acustica,di dire "I love you", merita sicuramente una recensione. Marco Ferreri,l'anarchico,il nichilista, anticipa di quasi trent'anni lo Spike Jonze di "Her", e dissemina vite grottesche in questa trasferta americana.Cristopher Lambert,più assonnato, incerto ed iconico del solito, rende in modo puntuale l'uomo che non ha più comunicazione con l'universo femminile, se non ricorrendo alla tecnologia, e quindi alla falsità. Un po' Cronenberg, un bel po' Bertolucci-senza dimeticare il sordiano "Io e Caterina",di pochi anni precedente.Il regista-dissacratore rigira il letto di procuste dell'occidente:dove non si è liberi ma si è capaci di andare in treno dagli Usa al Giappone. La fotografia diventa pittura, come nei capolavori, e i dialoghi si fanno poesia, sospesi sempre tra Beckett e il cinema di serie C. Un'idea assurda (nell'86, più che oggi) sviluppata con credibilità-questo è in fondo sempre stato il cinema di Ferreri; dove-in questo film più che altrove-si plasma il feedback solo con l'ausilio animale o elettronico. C'è proprio l'impressione-se non la certezza-che Ferreri sia una sorta di Antonioni che ha deciso di premere il grilletto,e pure senza silenziatore. E forse il futuro sarà in grado di trovare queste risposte non semplici profezie ma veri e propri referti, e non liquidarle sotto il comdo alibi dell'oscenità o del cattivo gusto. "I love you" è una dichiarazione d'amore, spontanea, disperata ed imbelle. Talmente godibile e sicura, da permettersi perfino un finale autoreferenziale in cui Lambert non riesce a salpare sul veliero per Haiti-al contrario del Piccoli di "Dillinger"-ma solo ad ingoiare acqua e sbanfare. Siamo solo capaci di distruggere e distruggerci, avverte Ferreri, infischiandosene, come al solito, di quello che si dice in giro,orbo luciferino nell'epoca delle cecità sentimentali, dove i nudi pittorici sembrano avere gli occhi chiusi, per non doverci vedere mentre ci giriamo dall'altra parte. Questo film è stato quasi dimenticato, rimosso, proprio come un angelo immortale sorpreso a grufolare verità orrende. Sognatori, anarchici e cinefili hanno però il dovere, e soprattutto il piacere, di ricordarlo.

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Capo Vaticano - Francesco Casuscelli

L'oracolo 
scrisse il futuro
sulla sabbia,
poi 
venne l'onda 
e lo sciolse
con spumose
carezze.
Lo raccontò 
al vento 
e le nuvole
lo portarono via.

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Poesia da Twitter - PoesiePopCorn

Dormiamo incastrati,
come cover e cellulare.
"Solo se mi prometti 
che vibreremo insieme"

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giovedì 27 febbraio 2014

Sulla bellezza - La Marchesa

Passiamo la vita a cercare di esser gnocchi sentendoci dei cessi!
L’idea di bellezza ci sta rovinando la vita. Passiamo gli anni a inseguire un ideale che è per definizione irraggiungibile. Pensiamo alle foto delle riviste:  allora ci sono dei fighi e delle gnocche stratosferiche, mezzi nudi, spesso unti , (che fa sesso, non ho capito perché, provate a scopare con uno unto d’olio, ti sghia via..), con dei muscoli e dei culi di marmo,  che hanno il potere di farti sentire un gabinetto, elegantemente parlando. Ecco da qui partono i fatturati di tutte le aziende di cosmesi, e la rovina della nostra esistenza. Lo sanno tutti che tra mollette dietro i vestiti per farli aderire bene, luci, trucco e parrucco e poi Photoshop, il risultato finale è una galattica menzogna e noi cerchiamo di diventare così, spesso con risultati esilaranti. Ti dicono che bisogna tenersi in forma,  andate a correre, andate in palestra, basta volere e il tempo si trova!
Certo, dopo 8 ore di lavoro, due di trasporto, i figli che ti attendono a casa (per fortuna questa incombenza mi è risparmiata), pronti a saltarti addosso assetati di attenzioni come i vampiri di sangue e poi cucina e mangia e tutto il resto, è vero facendo uno sforzo organizzativo immane, riesci a ritagliarti due  o tre volte la settimana di palestra, ma mai e poi mai riuscirai ad avere quei fisici! Quelli lo fanno di mestiere, ogni mattina sono in palestra 3 o 4 ore, ingurgitano barattoli di amminoacidi e papponi proteici e spesso anche altro, quasi sempre hanno anche il personal trainer.
Insomma al massimo riesci a definirti un po’, ad eliminare quel po’ di pancetta ad andare in costume senza vergogna, io la faccio e son contento, ma magro sono e magro resto. Un  po’ di anni fa arrivo in questa nuova palestra figa, di cui non farò il nome, c’era lo sconto promozionale, quindi occasionissima e mi arriva il trainer, gonfio come una tacchina che si mette in testa di farmi aumentare di peso e massa muscolare. Io che in fondo sono finocchia (e scema) all’idea di 5/6Kg in più di muscoli e poter fare il figo, accetto immediatamente.
Questo mi fa una scheda da rovina, un massacro, ma quello mi va bene, appartengo alla scuola di pensiero che con la fatica si ottiene molto, e quindi con molta perseveranza mi metto sotto. Poi parte con la dieta, “Ma tu, mangi abbastanza?” Io che ho un metabolismo da centrale atomica dico: “si mangio 6/7 volte al giorno, ma resto sempre magro.”
“Elencami!” e io elenco: “al mattino frutta, yogurt, caffè e brioches  o toast qualche volta, a metà mattina
un caffè con brioches, a pranzo un piatto di pasta , a merenda un caffe e un frutto, la sera di solito carne o legumi, insalata, riso, o un po’ quel cazzo che mi pare e nella quantità che mi pare, la sera ho fame, prima di dormire uno spuntino o dolce o salato col tè verde, a parte quando il venerdì  vado a fare l’aperitivo dove più che altro ingurgito due o tre negroni sbagliati e torno a casa felicissimo! ”
“Ecco lo sapevo.. NON MANGI ABBASTANZA! Devi mangiare più proteine  e poi niente alcool, niente fritti, niente dolci, niente sigarette, niente caffè..  poi devi prendere gli integratori, amminoacidi ramificati, pappe proteiche (sono disgustose, in qualunque aroma le fanno, sono schifose e poi sono un concentrato di sostanze conservanti e di farine ogm!) e la creatina. “
Io lo guardo e dico “..e poi mi inchiodo i testicoli alla porta e corro in direzione opposta  per farmi i glutei?”
“Spiritoso, se vuoi migliorare devi impegnarti!”
“Si impegno, non martirio, manco fossi San Sebastiano!”
Siccome la vanità è una brutta bestia , e noi finocchie siamo vanitose, mi sottopongo al trattamento,
nonostante tutto!
IL trattamento inizia con 6 bianchi d’uovo  a colazione (il rosso no, pare sia veleno, ovviamente la parte più buona!) bresaola dappertutto, riso bollito e petto di pollo in quantità. Tanta verdura, ma quella già la
mangiavo prima e tutti gli integratori, i papponi e le cosine prescrittemi. Risultato avevo sempre la pancia durissima, non digerivo un cazzo e evito di descrivere i sottoprodotti che sfornavo, perché non è elegante.
E il mio portafoglio piangeva.
Finalmente arriva la prima pesata vera dopo circa un mese e mezzo di questo inferno!
“Vai sei già aumentato di un Kg! Continua così!”
“UN CHILO!? un mese di calvario e un CHILO!?”
“Guarda che fisico, ti stanno venendo dei bei muscoletti!”
“Mmm, personal non è che i muscoletti mi vengono per quel percorso di guerra che mi fai fare con i pesi? 
E poi ai miei tempi un po’ di scienza  alimentare l'ho studiata e non mi pare che tutte queste proteine e
integratori facciano proprio benissimo  al fegato e ai reni!”
“Se non ti fidi della mia professionalità!? Vuoi o no avere un fisico come il mio?”
Ah era questo l’obiettivo, altro che 5 Kg, farmi diventare come lui, mai conosciuto ego maggiore.
Io l’ho guardato intensamente negli occhi e gli ho risposto : “mmm..  NO, cosa ti sei messo in testa,  sono grosso come Olivia di Braccio di Ferro, tu sembri Brutus, anche se mi gonfi con l’aria compressa non diventerò mai come te! E poi non ci tengo a diventare così grosso, non riesci nemmeno a tenere le braccia dritte lungo i fianchi, volevo solo mettere su qualche chilo e sembrare un po’ più figo!”
“Allora hai sbagliato posto!” Mi ha risposto offesissimo.
“Diciamo che ho sbagliato allenatore!”
Così ho cambiato allenatore, diplomato all’isef, il successivo, la prima cosa che mi ha detto è stata, “non
illuderti di diventare mister muscolo, con un fisico come il tuo al massimo ti definisci un po’, perché con me niente schifezze, solo una sana alimentazione”.  L’ho adorato, dopo quattro mesi ho messo su un altro Chilo e mi ci sono inchiodato a quel peso. E mangiavo come mi sentivo, cioè cose buone.
E stavo bene col fisichino ben definito. Ma son sempre quello di prima, la stessa faccia  storta, pelato, le orecchie a sventola, solo un po’ più in forma e adesso che son sei mesi che non palestro, ho perso i due chili e son tornato magro come prima.  Riprenderò, ma insomma la natura mi ha fatto così, io posso migliorarmi, essere curato, vestirmi con elegante minimalismo (fuori moda ne sono consapevole), ma resto ciò che sono coi miei difetti. E credetemi mi piaccio molto di più adesso alla mia veneranda età  di quando avevo 20 anni, e cucco molto di più.
Quelli belli sono un'altra cosa, ci son uomini che si mettono la tuta stinta e mollacciona e le infradito e
sembrano fighissimi, e ti fanno sesso come respirano, lo faccio io, mi guardo da dietro allo specchio e
sembra che me la son fatta addosso.
Ma perché?!
Insomma la bellezza è strana, a parte quelli belli sempre,  il resto del mondo un giorno è bello un giorno è cesso, così vanno le cose. Ci sono mattine in cui mi piaccio tantissimo e altre.. ma poi siam proprio fatti male, martoriati dai modelli dei mass media, però provate a pensarci, ci piacciono quasi sempre uomini o donne difettati, strani con la pancetta, senza capelli, e con noi stessi siamo implacabili. A sfinirci di botulino e palestra, già perché adesso va di moda iniettarsi il botulino  a litrate, funzionerà, ma a me l’idea di iniettarmi sotto pelle una sostanza che mi blocca i nervi e se ingurgitata mi porta all’ospedale, mi ispira un istintiva diffidenza.  Io continuo con le mie cremine al glicolico, che non va più di moda, ma chi se ne frega.
Pensate agli amici o alle persone che amate o che avete amato, quanto sono piene di difetti, magari
quando le avete conosciute non vi hanno detto gran che, vi son sembrate persino bruttine, poi man mano che le conosci cominci a vederle in un altro modo, e diventano belli, ma Davvero!
Vale anche per le nobili, quando li ho conosciuti, erano delle normalissime persone, simpatiche che non mi avevano colpito particolarmente, certo qualcosa di sottile mi ha portato a frequentarli, ma è conoscendoli, lavorando insieme che ho imparato a vedere la loro bellezza.
La Duchessa ha uno stile personalissimo in abiti maschili, anche quando indossa  lo stivaletto un po’
tamarro sembra indossi i mocassini di Prada. Lei non cammina per strada, “incede”, è più che bello, è una meraviglia. La Baronessa in abiti maschili è l’unico uomo nella galassia a stare bene in rosa e in verde pisello, se ne frega della moda e gira con i pantaloni a zampa, le felpine di colori assurdi che a lei stanno benissimo, sono i suoi colori, è bello, infatti gli uomini ci perdono facilmente la testa, perché ha qualcosa…
La Servetta1 è sempre stropicciato e in jeans e proprio se ne fotte delle mode, ma poi lo guardi bene e vedi l’occhio cerbiattoso, la bontà d’animo che traspare e vedi la sua bellezza.
Ma il più fenomenale è la Servetta2, sembra sempre uscito da una centrifuga, con la barba più ispida che abbia mai visto  e nera come il carbone, credo che sia possibile usarlo per carteggiare i muri, con sto mascellone maschio, poi si fa fotografare e viene sempre figo. Si presenta  con i pantaloni e la felpa stile profugo e poi senza preavviso con la giacca elegante, sbarbato con l’occhi chiaro che non avevi notato, ed è bello.
La nostra personal  Trainer va detto è figa davvero, è piccola, ma io l’ho vista in  déshabillé e mica è
personal  trainer per niente, accidenti che fisico, che pelle.  A parte quando fa freddo  che si seppellisce nelle giacche a vento e nei piumini nascosta dentro il cappuccio, che sembra una via di mezzo tra un’astronauta e l’omino micheline.  Non si capisce più che è donna.
Sta parlando il mio affetto per loro, il mio amore per loro?, SI ma che cos’ è la bellezza se non questo:
AMORE.
Allora la mattina, riconoscete tutti i vostri difetti, lavorateci su, andate in palestra, fate la dieta, miglioratevi ma non cercate di essere diversi da ciò che siete e da ciò che vi piace davvero.
Perché le mie amiche Nobili sono belle? Perché sono matte, totalmente, ma sono autentiche!

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Forme di vita - #Svolgimento

L’aveva capito subito, che qualcosa non andava. Si trattava di indizi minimi, da principio. Piccoli razzismi trascurabili, dicevano. Cose uguali a quelle di cento anni prima, a cui nessuno aveva dato peso. Poi era arrivato il crollo economico, e perfino le banche erano state chiuse. L’uomo si era abituato in fretta, non faceva più effetto a nessuno, vedere i bambini frugare tra i bidoni, vicino alla Scala. Erano cominciati i saccheggi, tutte le città in Europa erano allo sbando. Qualcuno dava la colpa agli immigrati. Perfino gli immigrati se la prendevano con quelli venuti dopo, immigrati come loro. Bande armate di predoni venuti dal nord si aggiravano nella notte, a bordo di mezzi blindati. Meglio fuggire, allora, e lasciarsi il mondo alle spalle. Era un ingegnere aerospaziale, il Mario Brambilla, altro che fare dello spirito sul suo nome.  Si era costruito la sua astronave, e con quella sarebbe partito. Spazio minimo, ma gli bastavano tre cose, da portare con sé. Non aveva amici, il suo vecchio professore era morto. Cosa ci restava a fare, a Milano? Il lancio era previsto per il 26 luglio. Caldo africano. I condizionatori riciclavano anidride carbonica  per le poche forme di vita rimaste. Caricò il cibo liofilizzato, l’acqua, e le tre cose a cui teneva tanto. Attese la notte e poi l’alba. A quell’ora le bande riposavano per effetto della droga. Si sistemò dentro la capsula ed iniziò il conto alla rovescia. Dal finestrino, in un angolo del terrazzo condominiale, al chiarore della luce del mattino vide  Arturo, il gatto della portiera. Non gli era mai stato simpatico, faceva pipì nelle scale, ma era una minuscola parte di Terra che avrebbe potuto portare con sé. Non ci aveva pensato, e non poteva farci niente. Cercò di rilassarsi.
In gioventù aveva fatto parte di un programma spaziale, prima che si sfasciasse l’Unione Europea. Partì alla grande, il Brambilla, lasciando una bella scia luminosa. Ma qualcuno assonnato pensò si trattasse di un attacco nemico, e spedì verso non si sa dove un ordigno nucleare. Un altro  arrivò in risposta quasi subito. Qualcosa attirò l’attenzione dell’ingegnere in orbita intorno alla Terra, mentre si stava facendo una michetta – disidratata tre anni prima – con del buon salame sintetico. Erano esplosioni nucleari, senza dubbio. Non c’era più Milano, né il gatto Arturo, e nessuna  forma umana. Mario Brambilla si asciugò una lacrima e dette un’occhiata alle tre cose che non aveva potuto lasciare. In quel momento si sentì cretino, avrebbe voluto lì quel gatto terribile, che magari avrebbe voluto fare i bisogni, e lui non avrebbe saputo come fare, ad accontentarlo. Sistemò i tre oggetti nella navicella di salvataggio, parevano neonati, parevano il futuro. Li gettò nell’infinita notte spaziale con un banale movimento della mano, poi ringraziò il cielo di aver previsto un meccanismo autodistruttivo, e ridendo si fece esplodere. Migliaia di anni dopo – secondo un calcolo che il Brambilla non poteva più fare – la capsula fu aperta. Conteneva tre reperti di una civiltà antica, alquanto primitiva. Su un bizzarro materiale riportavano simboli difficili da decifrare – Piccolo Principe, S.Exupery – Repubblica, Platone – Il Corriere della Sera – Quest’ultimo oggetto era il più strano, fatto a diversi strati pieghevoli. Il commento unanime degli esperti fu: “Strane forme di vita, offre l’universo”.
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Poesia da Twitter - Leo Baldini

Speri ,
e allo stesso tempo non speri, 
di ricevere una risposta. 
In quello spazio silente
amore mio.

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Milano, la guerra te la racconto io... - Simone Monguzzi

Scazzato,perchè questa città ti divora le membra e ti logora l’anima,e quando ti ritrovi in metropolitana alle 10 di sera e scopri che il prossimo treno è in arrivo tra 20 minuti,non puoi che essere incazzato. Incazzato con tutti,con il mondo e con quello stronzo che è al telefono e non è capace di tenere la voce bassa,con il ragazzino che non ha ancora scoperto l’esistenza delle cuffie e pompa la sua musica di merda facendola ascoltare a tutta la stazione di Loreto, con la signora per bene che ti guarda manco fossi uno stronzo di cane. Mi siedo,almeno un posto libero in una giornata patetica come questa, al mio fianco un senza tetto,uno dei tanti disperati che gironzolano per Milano,come anime senza una meta si aggirano in ogni angolo, tanto da diventare invisibili,fantasmi eterei di una città senz’anima e senza colonna vertebrale,piegata al denaro e morente per il troppo PM10 in circolazione. Lo fisso attentamente,non so perchè forse per noia,occhi scavati,incavati quasi da non vederli affatto,il viso stropicciato dal tempo dimostrava tutto il dolore e tutto quello che quell’uomo ha vissuto,lo fissai insistendo sempre più,per riuscire a scrutarlo meglio a capire il perchè si fosse ridotto in quella condizione,ero curioso di assaporare il suo trascorso,conoscere almeno una fetta della sua memoria,perchè poi sarebbe andata irrimediabilmente persa e in cuore sentivo che non ne valeva la pena di lasciarsi sfuggire questa possibilità. “Che tempo di merda” dissi al vecchio, il tempo è il discorso migliore per attaccar bottone se dall’altra parte c’è un tipo sveglio pronto a capire l’antifona e il vecchio la colse al volo, “Fa troppo freddo per essere a Milano,e di freddo io ne ho patito parecchio…” rispose con una voce così roca ma al contempo profonda e penetrante che parve quasi di conoscerlo da sempre tanto la sua voce riuscì in poche parole a trasmettere tutta l’essenza pure dell’anima,come a volersi affondare del mio petto per trovare un nuovo riparo,una nuova casa,un nuovo corpo per un anima stanca ma che aveva bisogno ancora di vivere,nella mia mente e nelle parole che ora sto battendo… Il discorso passò velocemente dal tempo alla guerra,mi disse che era del 1930,aveva nove anni quando dalla radio in salotto di casa sentì il discorso del Duce,il tragico annuncio era solo l’epilogo di tante cose e sensazioni che facevano capire a tutti,anche ai bambini di nove anni che la guerra era alle porte, la dichiarazione di guerra era stata consegnata agli ambasciatori di Francia e Inghilterra… poi per radio si sentì un gran fragore di folle urlante e in festa. Cosa ci fosse da festeggiare probabilmente il vecchio mai lo capì, il discorso mi aveva preso ero immerso nella sua voce e nel profondo dei suoi occhi mi potevo smarrire,vedevo nella mia mente immagini di situazioni che mi stava narrando,sentivo le voci,provavo emozioni indescrivibili di gente che fugge,sirene anti aeree che suonano nel pieno della notte e di una gran folla che scappa e si ripara dove può,sperando che sia solo un falso allarme,sperando che la propria casa sia ancora in piedi quando usciranno dal rifugio. La guerra, mi disse, “è la situazione più bassa e miserrima che la razza umana possa provare su se stesa,un alienazione totale e insensata dove non capisci più chi sei e qual’è il senso di tutto questo orrore,alla fine ti accorgi che non ha senso e che moltissimi sono morti senza aver mai capito il perchè”.
Ci fù poi un lungo silenzio,che servì a me per rimasticare ancora una volta queste parole,per farle mie,metabolizzarle e renderle parte di me,parole di ghiaccio che freddarono il mio corpo e di fuoco che incendiarono la mente e il cuore,come un flusso di coscienza mi attraversò il cervello e vidi giovani,donne,anziani,bambini,tutti insieme tutti terrorizzati,confusi,impotenti… incapaci di resiste e di lottare.
Poi mi parò della fine della guerra,come se capisse che per me fosse troppo giù solo l’inizio, mi raccontò di Piazzale Loreto,di come a qualcuno venne l’idea di appendere i due cadaveri sullo scheletro di metallo di un vecchio distributore di benzina,di come anche nella situazione più triste a qualcuno venne in mente di pinzare la gonna del cadavere della Petacci per senso di pudore… pudore appunto come quello che per 20 anni non si era più visto ora ritorna proprio nel giorno più particolare,macabro e tremendo ma insieme liberatorio della storia d’Italia e di Milano… Il volto del Duce,mi disse,era irriconoscibile tanti furono i bugni i calci e gli sputi che Milano gli diede,poi arrivò il cardinale (cardinal Schuster),l’unico tedesco amato in tutta milano, il porporato gli diede l’estrema benedizione,perchè pare,proseguì il vecchio,che una benedizione non si nega a nessuno.
Arrivò la metro,ci stringemmo la mano calorosamente,lo ringraziai di cuore per questa bellissima e toccante chiacchierata,le porte della metro si chiusero alle mie spalle,il vecchio ancora seduto sulla panchina mi guardò scorrere nell’oscurità del tunnel e mi confusi ancora una volta nella folla senza identità di Milano.
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Un pugno nello stomaco può cambiare il volto - Il Mondo Perfetto

Il baluginio. Lo ricordò spesso come una specie di sogno.Vedeva,come una statua della libertà con luci gialle a dorarle ulteriormente la chioma,la ragazza.Sul cartello c'era una luce verde.Probabilmente tutti quei colori erano dovuti al sonno che poi lo prese,davvero.L'ultima cosa che ricordò era una serie di fischi così intensi da sfondargli le orecchie; il naso invece già non lo sentiva più.Rimaneva sullo sgabello,nel suo angolino,prima del maledetto terzo round.Si domandò (che strano pensiero per un pugile !) se la ragazza,in realtà,non stesse altro che recitando una parte,seppur con convinzione.L'arbitro gli venne incontro con un fare paterno,quasi pietoso.Disse che se non se la faceva ad alzarsi sarebbe finita là; forse è meglio,aggiunse. Perché aveva lasciato la scuola ? Per farsi pistare, all'ombra dei suoi diciassette, da uno stronzo tatuato-quando ancora non andavano di moda- che sembrava avere ventisette anni invece che diciassette.E poi:una scena del genere doveva avvenire a Milano,a Roma tutt'al più,e non in quello sperduto-spietato,pensò poi paese.Si disse,ingenuo,che si alzava per sé stesso.Si disse che,male che fosse andata avrebbe chiesto il numero alla ragazza.Si rialzò.L'allenatore-praticamente una controfigura dell'arbitro,solo più disincantato-gli sfiorò una spalla.Per chi lo faceva? Quella era la domanda a cui avrebbe dovuto rispondere,anche negli anni successivi."Ti porto a Milano" gli dissero in palestra.Invece era restato un anno in quel buco.Era a quello che adesso pensava.Sapeva che era l'unico posto dove poteva andare.Ma ora,in piedi,cazzo!

L'avversario gli ghignava addosso con la risolutezza di un campione.Era,come lui,un peso medio ma sembrava un bestio informe e dinoccolato,un gigante che ha deciso di strapazzare lo scemo del villaggio ma,prima, divertircisi un po'.Fabrizio cadde al primo colpo serio che il gigante gli piazzò,un diretto proprio dietro l'orecchio sinistro,era mancino quella bestia.Voglio dormire un po',pensò.E fu così che cadde.Era la prima volta,nella sua breve carriera,che andava giù.Che si fa,adesso?L'ultimo pensiero fu un desiderio:avrebbe voluto uno specchio per guardarsi meglio le ferite, i tagli,le escoriazioni che gli tempestavano il volto."Datemi uno specchio" qualcuno disse poi di aver sentito,un attimo prima che cadesse."Non pensavo di averlo ammazzato" disse il gigante,come tra sè,mentre l'arbitro ne proclamava la vittoria.
Le luci dell'ospedale somigliavano così profondamente a quelle sui capelli della ragazza che Fabrizio per un attimo non gridò.Si stupì solo di risvegliarsi che nella camera non ci fosse nessuno.Si girò su un fianco e sentì un dolore atroce;come se qualcuno avesse deciso di camminare con le scarpe chiodate sul suo costato.Vide uno specchio sul comodino e allungò una mano.Sotto lo specchietto c'era un orologio da polso con segnate le 12 e 37.Lei ha una brutta ferita,ok,poteva entrare in coma.Oppure:deve rimanere qui in osservazione per una settimana,forse dieci giorni.Invece entrò soltanto un'infermiera dicendo che il dottore era occupato.Fabrizio non poté fare a meno di guardare il piccolo lampo di disapprovazione nei suoi occhi.Era lo stesso-ci giurava-che avrebbe avuto lui quando si fosse rimesso in sesto.Mi faccio prendere a pugni da un gigante ma ho paura a guardarmi un uno specchio-pensò con sarcasmo.Solo quando l'infermiera,sculettando,lo lasciò solo, si rese conto che non le aveva chiesto perché era in una camera singola e non in una corsia comune.Riallungò una mano verso il comodino ma un'altra fitta lo prese e lo specchio gli cadde dalle mani.Senza rompersi.La faccia sul pavimento era la sua,nonostante tutto.Quella fu la prima vera dissolvenza della sua vita.

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mercoledì 26 febbraio 2014

Xera, la ragazza con la spada (Pag. 1) - Valeria Ricci

<<Yak, Yak e ancora Yak! Sono stanca di questi dannati animali!>> 
Xera ricordò l’ultima frase pronunciata a sua madre prima di essere scelta, tra i pochi eletti delle terre di Raifaelia, per partecipare alla competizione presso l’isola di Horsia, per giovani aspiranti leve.
Sembrò essere passato un secolo dal fatidico giorno e ricordare quelle parole, per la giovane paladina, fu come rivangare un lontano ricordo sbiadito, quasi come un dipinto dimenticato in un angolo della soffitta di casa.

Mentre affilava la sua amata spada, Spina di Rosa, che le illuminava il viso con il suo bagliore rosso, con il pensiero tornò alle terre lontane della sua amata Dalihan, sempre verdeggiante e dai cieli azzurri perenni, come se il grigio non potesse mai toccarla o scalfirla.

Tra quelle lande incontaminate c’era una piccola e modesta capanna. Quell’alloggio non aveva troppe pretese se non il desiderio di riparare i suoi abitanti dal freddo della notte. Non c’erano fronzoli o ornamenti che avrebbero potuto renderla più invitante, solo un forte odore di pelle di Yak Selvatico, esposta su una delle pareti della casa, come trofeo di qualche caccia passata.

La famiglia che alloggiava in quella dimora, era umile e senza sogni che potessero scavalcare i monti di Dalihan. Quella vita era stata loro donata dalla dea Raifhee pensavano, perché desiderare di meglio?
Tutto era immutabile come se il tempo non esistesse; i soli sorgevano e tramontavano e i giorni si ripetevano scandagliati solo dal lavoro, almeno sino a quando la giovane donna dai folti capelli rossi come il sole al tramonto, non scoprì di attendere un bambino.

La felicità per quella notizia assai lieta, rese quell’abitazione umile, una casa. Un bambino era il dono della Dea per ricompensare il duro lavoro della famiglia e la loro devozione alla divinità.
<<Che sia maschio, mia dolce Annabell, così che possa aiutarmi nel mio duro lavoro!>> questo era il desiderio del giovane pastore, rivolto più volte alla sua amata, quasi come se lei avesse facoltà di scelta.
Annabell invece, sapeva che quella creatura sarebbe stata diversa da ciò che speravano. Lo sentiva agitarsi nel suo grembo come fosse in costante lotta, così da costringerla a cantargli la canzone dei Pillim per calmarlo. Solo quelle note sapevano farlo addormentare. Dolcemente Annabell si accarezzò il pancione sperando che quelle sensazioni, fossero solo i timori infondati di una madre un po’ preoccupata.

La sua felicità crebbe giorno dopo giorno, poiché il momento tanto atteso, si stava finalmente avvicinando; era ormai impaziente di poter stringere il suo bambino o la sua bambina.
Un angolo della stanza era stato sistemato alla buona con ciò che la famiglia poteva permettersi, ossia pelle di Yak cucita e profumata da fiori selvatici, preparata dalle mani esperte di Annabell. Una piccola culla intagliata a mano dal giovane pastore, occupava tutto il resto di quel modesto  angolo, dipinta di verde come i campi di Dalihan e di azzurro come il cielo e come gli occhi della giovane madre, anche se Annabell ci vide un chiaro e mal celato desiderio del marito, di avere un maschio. A lei però non interessava, l’importante era che fosse forte e sano.
 A questo pensò poco prima di mettersi a letto accanto al suo giovane sposo, che la abbracciava per tenerla al caldo. Sperò che quella sensazione di estrema felicità, potesse durare a lungo; il suo desiderio fu espresso proprio mentre dal cielo cadeva una stella.

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Poesia da Twitter - Cotrozzi Livio



E poi quando sarai passata non finirà 
e non avrò piú paura se cambia il vento
ora penso a fermare il tempo.




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Impossibile, un racconto di Ant Sacco

Credevo che non avrei mai smesso di cadere. Ho continuato a precipitare per un tempo lunghissimo, come in un incubo. Poi, finalmente, l’impatto. Per fortuna braccia e gambe sembrano ancora intere. Solo la caviglia sinistra mi duole, e sta gonfiando. Dev’essere una slogatura. Allento lo scarpone sperando in un po’ di sollievo.  Mi guardo intorno, ma il mio orizzonte è molto limitato. In alto le linee spezzate che formano la bocca di questo profondo crepaccio rivelano solo un’angusta fettina di cielo. Intorno a me i riflessi azzurrini delle pareti di ghiaccio che mi circondano e mi costringono in una posizione scomoda. Non tento neppure di alzarmi in piedi, è inutile che sforzi la caviglia: arrampicarsi su questi muri lisci senza ramponi e piccozza è impensabile.
La natura qui è incontaminata, perfetta. Bellissima. Spietata.
Non posso fare altro che aspettare. Magari prima di buio passerà qualcuno. Comunque stasera in albergo si accorgeranno della mia assenza. Chiameranno il soccorso alpino e verranno a cercarmi. Diranno che sono stato un imprudente, mi pare già di sentirli: la stagione è troppo inoltrata e la zona infida per avventurarsi con gli sci lungo itinerari inconsueti come questo. E da soli, poi. È vero, hanno tutti ragione. Ma è proprio perché questi luoghi sono semideserti che amo percorrerli. Le piste, invece, quelle conosciute e frequentate, mi fanno sentire esattamente come mi sento in mezzo al traffico metropolitano: una formica impazzita, traboccante astio e in competizione con tutti. Trascorrere qualche giorno in questa solitudine mi aiuta ad affrontare per un altro anno il caos cittadino e lo stress del lavoro. La mia vita da formica, insomma.
Fra qualche giorno questo incidente diverrà un aneddoto da raccontare agli amici. A mia moglie ne accennerò appena: si preoccupa sempre in occasione delle mie gite, non voglio accrescere la sua ansia. Le ho spiegato che non corro alcun vero pericolo. Ma non l’ho convinta. Non mi crede.
Eppure è così.
Anche adesso, come tutte le volte che mi trovo in una situazione dalla quale sembra impossibile potersela cavare, avverto in bocca il sapore di una pasta e fagioli di tanti anni fa, quella che non potei finire perché mio padre mi tirò via per un braccio dalla tavola. Stava suonando l’allarme. Mia madre e mia sorella erano già scappate al rifugio. Io ingoiavo un cucchiaio dietro l’altro, non volevo lasciarla nel piatto, la pasta e fagioli. Era così buona, quella sera. La più buona che abbia mai assaggiato.
Fa freddo qui. è difficile muoversi per scaldarsi un po’ in questa stretta fessura, e poi la caviglia mi fa male. La luce va lentamente diminuendo, l’ombra delle montagne intorno ha coperto la tana inospitale che mi tiene prigioniero.
Allora, invece, faceva caldo. Forse per via dei nostri corpi ammassati: come al solito in quella vecchia cantina si erano riparate quasi tutte le famiglie che abitavano nella strada. Noi arrivammo fra gli ultimi, e già l’aria era tiepida e densa di odori. Il più forte era quello della paura.
Mentre continuavo a rimpiangere la mia scodella piena e sbocconcellavo una fetta di pane afferrato prima che mio padre mi portasse via, il soffitto prese a franare sulle sulle nostre teste e un rumore insopportabile ci avvolse. Grida e invocazioni si alzarono intorno a me, mentre i calcinacci ci piovevano addosso. Una bomba ci aveva dunque colpiti, pensai: era la fine. Saremmo morti tutti. Mi tappai le orecchie con le mani per non sentire, e vidi che mia sorella aveva fatto altrettanto. Ma non ci fu alcuna esplosione: anzi, lì dentro il rumore diminuì, mentre la polvere ci accecava nonostante ormai non si staccassero che pochi frammenti di intonaco dai muri. Nessuno di noi era rimasto ferito, ma tossivamo tutti, l’aria era divenuta irrespirabile. Il rifugio era semidistrutto. Una parete e un angolo del soffitto erano crollati. Ci ammucchiammo tutti nella parte rimasta in piedi e aspettammo.
L’aria che respiro è pura e frizzante. Sto cercando di non lasciarmi andare e di aiutare in ogni modo il mio sangue a circolare, battendo le mani, e massaggiando le parti del corpo dove riesco ad arrivare. Il dolore alla caviglia mi tormenta. Comunque è solo questione di tempo: presto qualcuno si affaccerà dalla sommità del crepaccio e mi chiederà: “Come va? Qualcosa di rotto?”.
Questa prigionia mi fa tornare alla mente i libri che divoravo da ragazzo, in cui gli eroi superavano prove e difficoltà di ogni genere e i cattivi soccombevano sempre. Quei cavalieri popolavano la mia fantasia, ed ero con loro quando fuggivano dalle segrete in cui il nemico li aveva gettati, quando si battevano in duello per salvare la fanciulla del cuore o l’amico ferito, quando cavalcavano. Li ammiravo con tutto me stesso, e sognavo di diventare come loro. Invece sono un funzionario di banca a pochi anni dalla pensione, e loro un lontano ricordo che questa assurda situazione, chissà perché, ha evocato.
Aspettammo dunque lì dentro fino a quando la sirena annunciò il cessato allarme; allora uscimmo all’aperto, dopo aver liberato la porta dalle macerie che la bloccavano. Davanti ai nostri occhi, fra mattoni, cocci, mobili in pezzi e stracci colorati che una volta erano stati abiti, vicino a un comodino capovolto ma quasi intatto, una bomba inesplosa puntava il suo muso metallico e appuntito verso il cielo. Mio padre disse “Non era la nostra ora”; mia madre e mia sorella si segnarono, guardando intimorite l’ordigno; io lo osservai con molta attenzione. Era il primo che vedevo integro, fino ad allora mi ero imbattuto solo in qualche frammento, quando con gli altri ragazzi del quartiere partecipavo a spedizioni fra le rovine. Dapprima fu una delusione: il suo aspetto era così poco minaccioso, come credere alla potenza distruttrice di un oggetto tanto insignificante? Qualcosa però mi induceva a non staccare gli occhi da quella bomba, mi aveva quasi incantato: forse il contrasto fra il suo aspetto e il suo potere, o il fatto che quel potere, per una volta, non lo aveva messo in atto, e ci aveva risparmiato la vita. A un tratto compresi che essa mi porgeva un messaggio molto importante: la morte, che quella sera mi aveva sfiorato senza però colpirmi, avrebbe potuto accostarsi a me più e più volte, ma non mi avrebbe mai preso di sorpresa. Sarebbe venuta a me solo quando io fossi stato pronto per lei.
E così è stato. Mi è passata spesso vicino, ma senza chiedermi di seguirla. Sa che non lo farò. Non fino a che non mi capiterà, un giorno, di finire quel piatto di pasta e fagioli.
(scritto nel dicembre 1994)
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Il cane bianco - Dario Caldarella

Distese di verde municipale
Intasano percezioni
Sopite da torpore carbonico.
Respiro corto,
solitudine gonfiata dal vento immobile.
Un cane bianco sfida i drammi relazionali,
fiero e distratto,
come Ettore all’ultima battaglia,
come una sfinge.
E io canto un incrocio di sguardi dilapidato,
nella brutale comprensione
di un isolamento animale.

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martedì 25 febbraio 2014

Titolo di giornale: Precipita dal balcone, è grave - Manuela Paric'

Rubrica: dalla cronaca ai mini racconti

Titolo di giornale: Precipita dal balcone, è grave.

e questo il mini racconto...più desolante e meno grottesco del solito...

Tutto attorno la vita non era poi così male. Tutto attorno ma non sopra la sua testa, dentro la sua testa, fra le pieghe dei suoi pensieri, dietro i suoi desideri, sotto chili di sogni inespressi. Non c'erano nemmeno quelli, i sogni. Pesavano e basta, senza manifestarsi. Le parole, le ore, gli avvenimenti si muovevano lentamente davanti agli occhi e sotto i piedi: non riusciva a fare niente. Seduto, appoggiato con il culo grasso sul divano sperava sempre di trovarvi sotto una mina e di esplodere, deflagrare verso una nuova prospettiva: spinto, acceso. Ci provava a volte a sentirsi bene. Si alzava in piedi, evitava di guardarsi allo specchio, dilatava le pupille, allacciava le scarpe da ginnastica e si diceva pronto ad uscire. Non lo faceva, non lo faceva mai. Fuori il sole lo aveva già stancato. Allora ricordava un tempo lontano in cui l'aria sulla pelle gli dava ancora piacere senza farlo sentire imprigionato, costretto in uno spazio non suo, osservato. Ricordava un tempo lontano in cui il mondo, seppur poco, gli assomigliava. Il problema era proprio quello: non si somigliava più. Chi era? Non si era svegliato scarafaggio ma s'era evoluto, giorno dopo giorno, battito dopo battito. Che schifo. Diventato ormai altro da se capiva di non aver più alcuna facoltà di decidere, di prendere la situazione in pugno e cambiare la sua storia. Attendeva, scioccamente, desolato, attendeva lo scoppio. Il boato di una arteria spezzata, il silenzio di un cuore arrestato, la fine. Le persone gli gravitavano attorno più simili a fuochi fatui che a vere comparse e lui rispondeva da grande attore, si faceva corporeo e si palesava, in quel banale intreccio di sorrisi e lamentele richiesto dal bon-ton dell'esistenza. Così, quando in un ultimo atto di coraggio prese il volo dal quinto piano, tutti pensarono ad una perdita momentanea di coscienza, ad un inciampo. Che pena. "Date almeno i miei resti al cane", questo pensò cadendo, proprio questo.

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Il Corvo e la sventura di esser nato così... - Simone Monguzzi

Un giorno di Luglio il vecchio Antonio Percini,vide nel bosco un piccolo corvo imperiale e mosso a pietà lo prese con se. Antonio era un uomo schivo,ma non cattivo,di quelli che preferiscono restare soli non per cattiveria ma perchè non si sentono parte di questo mondo. Cosa facesse per vivere e come sopravvivesse nessuno in paese lo sapeva,si dice che tornò parecchi anni dopo la guerra,la patria lo mandò al fronte a combattere prima per i tedeschi e poi contro,probabilmente fu catturato e tornò solo dopo molti anni di cammino,ma chi lo conosceva bene diceva che era tornato diverso e cambiato non solo nell'aspetto ma anche nei modi di fare,da allora si ritirò su una baita lontana dal paese e cosa facesse di preciso nessuno lo sapeva con certezza.
Il corvo crebbe,aveva un piumaggio nero,con occhi grandi e scuri come mirtilli,un becco massiccio e ricurvo,la gente temeva quell'animale che ogni tanto si faceva vedere in paese,si posava su qualche albero o su qualche finestra e ben presto cominciò a circolare la voce che quell'animale portava sfortuna,era una credenza nota (e lo è tuttora) che il corvo porti sfortuna,che come la civetta annunci la morte o il verificarsi di qualche sciagura,ma è solo ignoranza infondata ma a quel tempo tutti ci credevano senza alcun dubbio o incertezza alcuna. Accadde,un giorno di Ottobre che il parroco del paese, Don Vincenzo,vedendo il corvo posato sul rosone della chiesa,corse a gran velocità sul sagrato in marmo per cacciare la bestiaccia,quel giorno aveva piovuto parecchio e correndo scivolò sul sagrato,cadendo si ruppe il braccio destro,proprio quello usato per le benedizioni e per dire messa,era il 15 Ottobre,il giorno di San Fortunato Martire,ma quel giorno di fortuna il caro Don Vincenzo non ne ebbe affatto. Le anziane del paese saputa la notizia iniziarono a segnarsi e a recitare il rosario,sapevano bene che la cosa era seria non solo per il parroco che fu portato in ospedale su di un carretto ma anche per il paese stesso,la brutta stagione stava arrivando e un prete con il braccio destro rotto non può dir messa ne celebrare battesimi e funerali,insomma il paese era disperato,il prete più vicino era a 3 ore a piedi dal paese,a quel tempo le strade non erano ancora tutte asfaltate e per mettersi in viaggio ci voleva il bel tempo altrimenti si correva il rischio di rimanere bloccati nel fango o peggio ancora in qualche fiume che straripando inondava la strada vicina. La domenica arrivò e le donne di buona lena si alzarono presto per recarsi alla messa nel paese vicino,il cielo era sereno,il sole appena sorto colorava di rosa le montagne e arancio le cime innevate e i ghiacciai perenni. Dopo qualche settimana arrivò un nuovo prete che sostituì Don Vincenzo per un mese circa,fino al giorno della sua guarigione. Il corvo non si fece più vedere fino agli inizi di Dicembre,il paese era coperto da una coperta di neve spessa quasi una spanna,tutto taceva,l'unico rumore era il crepitio del legno nei camini,il fumo bianco che usciva dai comignoli si confondeva subito con lo sfondo del candido paesaggio innevato,per questo non fu difficile notare il corvo nero passeggiare sul tetto della casa dei coniugi Vernucci,erano due anziani di 85 anni,da tempo malati entrambi e il paese si fece carico di aiutarli,la loro casa era molto vecchia e alcune tegole rotte facevano uscire il calore dalle loro crepe sciogliendo la neve attorno,creando così delle chiazze rosse sul tetto bianco. Il corvo si era posato proprio su una di queste chiazze probabilmente per riscaldarsi,sfruttando il tepore proveniente dalle tegole. La vecchia Vernucci saputo che il corvo si era posato proprio sulla sua casa si spaventò a morte,ancora ricordava quanto fosse accaduto al parroco pochi mesi prima,e il marito vedendo la donna riversa al suolo morì quasi subito anche lui di crepacuore. La colpa fu subito attribuita al corvo,che ignaro di tutto rimase sul tetto a scaldarsi. Un cacciatore del paese venuto a conoscenza dell'accaduto imbracciò la doppietta e sparò un colpo al corvo che precipitò senza vita dal tetto,rovesciando sulla strada in piccolo rivolo di sangue scuro che si mischiò con la neve fredda e banca. Il cacciatore prese con se l'animale e lo buttò in un camino per brucialo,scongiurando così ogni maledizione del corvo,era infatti usanza al tempo bruciare le cose o le bestie che si pensava portassero sfortuna. Le piume del corvo bruciarono immediatamente e con loro il resto dell'animale,il fuoco mangiò la carcassa e ne sputò soltanto qualche osso e un cumulo di cenere.

Di disgrazie ne accaddero ancora nel paese e le colpe furono imputate al caso e a qualche altra bestia o persona poca gradita e mal vista. L'ignoranza della gente porta spesso a conclusioni affrettate e ancor peggio,spesso la gente è causa del proprio male,il prete scivolò perchè il sagrato era bagnato non certo per colpa del corvo e i vecchi Vernucci morirono alla veneranda età di 85 anni,non certo giovincelli,ma l'ignoranza porta sempre a dare spiegazioni insensate e fatti comuni.

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